Il bello: la sua storia e la sua scomparsa nell’epoca contemporanea



Redatto da Oltre la Linea.

La scomparsa del bello è un fenomeno che i tempi moderni hanno visto estrinsecarsi con sempre maggiore forza. Ma che cos’è il bello? C’è una frase che da tempo viene continuamente citata nel mondo più o meno colto, e che ormai è consunta da quanto è stata usata, la quale ci racconta che solo «la bellezza salverà il mondo»: pronunciata dal principe Myskin, protagonista del famoso romanzo “L’idiota” di Dostoevskij.

Tuttavia, mai una frase, che in sé sarebbe profondissima, si è manifestata del tutto insensata se riferita al nostro presente storico, in cui la bellezza – soprattutto artistica – sta scomparendo in modo sempre più progressivo, tanto che ormai può essere considerata solo una moda, e come tale una parvenza illusoria.

 

La scomparsa del bello: comune fattualità

Se, infatti, si domanda ad un qualsiasi individuo che esclama «che bello!» – magari di fronte ad un paesaggio o ad una opera d’arte – che cosa significhi la parola “bello”, si potrà constatare che quasi nessuno sa esprimere il significato di tale parola. Ciò può sembrare una paradosso, poiché mai come oggi ci sono tanti turisti in giro per il mondo alla ricerca del godimento di bellezze naturali o artistiche.

Eppure, basta chiedere, senza ricorrere al metodo socratico, perché c’è il bello o che cosa esso sia, e subito si noteranno l’imbarazzo e l’incapacità di dare una risposta convincente. Una risposta che, in verità, anche moltissimi presunti critici d’arte eludono, poiché essi sono magari in grado di descrivere dettagliatamente tutte le tecniche e tutta la storia con cui ed in cui l’opera d’arte è stata eseguita, ma non sono invece in grado di spiegare il perché quell’opera sia bella.

 

Definizioni e letture dalla filosofia

In verità, non esistono molti libri importanti che si occupano teoreticamente del bello. Abbiamo, dal passato, alcune notevolissime riflessioni nei dialoghi di Platone come il “Simposio”, il “Fedro” ed in parte il “Filebo”; considerazioni di Aristotele, Plotino e Dionigi l’Areopagita;  e poi quelle del leibiniziano A. G. Baumgarten, che fu il primo a scrivere tra il 1750 e il 1758 un trattato compiuto sulla bellezza, intitolato “Aesthetica” (un libro che, peraltro, influenzò sicuramente Immanuel Kant), fino ad arrivare a Benedetto Croce.

Tutti libri o scritti indispensabili, che forniscono lezioni su come il bello sia equilibrio, misura, armonia, proporzione, semplicità luminosa, sebbene abbia in sé – essendo un sentimento – un qualcosa di indefinito: come una finalità ineffabile da raggiungere. Ma è soprattutto con Kant che troviamo una meditazione profonda e compiuta, in cui si passa dalla semplice spiegazione descrittiva del bello a ciò che esso è veramente, ed al perché noi umani siamo gli unici enti in grado di coglierlo.

La “Critica del Giudizio” kantiana è, a parer nostro, l’unico libro in cui si parla sì di estetica, intesa come arte liberale del bello, ma, in particolare, su come è possibile il bello: l’opera kantiana è perciò un saggio ontologico che esamina fenomenologicamente le capacità proprie dell’uomo nel provare il piacere estetico della bellezza e nel crearla per mezzo di persone dotate di genio.

Anche Heidegger scrisse un libro fondamentale su “L’origine dell’opera d’arte”, che però è un saggio soprattutto ontologico, il quale descrive il rapporto indissolubile fra arte e verità, poiché «l’arte è la messa in opera della verità», una verità intesa come disvelamento dell’Essere. Un libro, tuttavia, che non si occupa di estetica, diversamente dal libro di Kant – in cui, si diceva, ontologia ed estetica si fondono. Proprio per questo ci azzardiamo di affermare che la “Critica del Giudizio” è un’opera unica, insuperata ed insuperabile: il vero grande capolavoro di Kant.

Egli scrisse questo libro cercando di far incontrare (e non di conciliare, poiché per lui ciò era impossibile) due mondi. Ovverosia, il mondo dell’intelletto astratto, tecnico-scientifico e matematico – che configurava un mondo meccanicistico privo di libertà -, ed il mondo della ragion pura pratica (la morale), appartenente al regno della libera volontà razionale, ossia alla facoltà del desiderare (in cui era postulato persino il libero arbitrio con la messa in azione dell’imperativo categorico).

 

La riflessione nel bello

L’esame della facoltà del sentimento poteva perciò solo avvicinare questi due mondi contrapposti. Tuttavia, questo peculiare motivo che spinse Kant alla scrittura del saggio è di secondaria importanza. Il centro profondo dell’opera, del tutto originale, consiste invece nell’analisi ontologica riguardante quella capacità precipua del pensare umano, che è la riflessione. Tutto il libro si impernia su questo tema.

La riflessione è la capacità più profonda del pensare puro, che è incondizionata rispetto gli aspetti empirici, quando si tratta della riflessione in sé. Essa è un ripiegamento del pensare su se stesso, un rapporto che si rapporta con se stesso e che ne è consapevole. Con la riflessione nasce l’Autocoscienza. Il principio supremo del nostro pensare è il principio di identità (da cui discendono tutti gli altri principi logici), in cui l’io soggetto sa di essere l’io soggetto: Heidegger scriverebbe che «lo stesso è lo stesso con se stesso».

La riflessione è perciò l’accorgimento spirituale originario: la “Critica del Giudizio” viene organizzata come una analisi dei giudizi riflettenti, per cui la parola Giudizio assume il significato specifico di organo dei giudizi riflettenti [1]. Il che implica perciò una facoltà del pensare umano capace di fungere da intermediaria fra l’intelletto (la facoltà che organizza il sapere scientifico, comunque empirico e fenomenico, e perciò finito) e l’immaginazione (“phantasìa”) sentimentale (la facoltà che, pur attingendo dai dati sensibili, li rielabora liberamente porgendoli all’intelletto).

 

Hegel e Kant

Hegel osservava che la riflessione è da intendersi come capacità pensante propria del soggetto,

«ossia come il movimento della potenza giudicatrice, che oltrepassa una data rappresentazione immediata e cerca per essa delle determinazioni generali e con essa le confronta» [2].

Sempre Hegel scriveva che «la verità dell’essere è l’essenza»: ma per conoscere codesta essenza è necessaria la riflessione, che è perciò la facoltà più profonda del nostro pensiero.

Hegel ha scritto pagine straordinarie nel rivelare le varie articolazioni esterne ed interne  della riflessione (che definisce anche come la negazione della negazione all’interno del pensare) [3]. Bisogna però tener sempre presente che tale riflessione viene da lui concepita  al di dentro del pensiero puro, in quanto tutto si riconduce al Concetto, ovverosia a tutto ciò che si fa dinamicamente razionale. Perciò, anche il bello è un’idea, mentre per Kant è una finalità sentimentale e, come tale, indefinibile.

Kant in questo tema si distingue nettamente (dimostrando, a mio parere, una superiore complessità) da Hegel. La veduta dell’Essere in Kant è molto più larga e completa: già nella “Critica della Ragion Pura” egli riteneva che l’Essere fosse strettamente connesso al tempo [4], rendendo così compatibile il legame fra sensazioni e categorie. Infatti, attraverso gli schemi trascendentali (prefigurazione intuitive e temporali delle categorie), che sono possibili tramite l’immaginazione produttiva [5], le categorie, cioè le supreme funzioni del pensare, vengono calate nel tempo tramite l’Io penso che lo condiziona.

In tal modo l’eterogeneità fra sensazioni (il posteriori empirico) e categorie, che sono a priori (al di là dell’esperienza), viene superata e poi sussunta attraverso gli schemi, e perciò sottomessa al nostro pensare e ai suoi principi generali.  Nella “Critica del Giudizio” Kant va ancora oltre: il Giudizio si lega, oltre all’intelletto, anche ai sentimenti e in particolare a quelli estetici quali il bello e il sublime, per cui anche i sentimenti “pensano”. La visione dell’Essere in Kant supera quella idealistica che lo concepisce come pensiero puro: l’Essere è sì pensiero, ma anche intuizione temporale, sentimento e volontà.

 

I giudizi riflettenti nel bello

I sentimenti non sono semplici emozioni o sensazioni momentanee: a differenza di queste, hanno, in generale, le qualità della durata e della costanza nel tempo. Sono situazioni emotive coerenti che possono fondare i valori permanenti di ogni vita personale. La coerenza e la permanenza implicano perciò un potenziale ordine logico. Per questo motivo Kant distingue i giudizi in giudizi riflettenti determinanti e giudizi riflettenti sentimentali.

I primi sono propri dell’Io penso universale (l’intelletto) e sono descrittivi, quantitativi e misurabili: sono in altre parole i giudizi della scienza, in cui la potenza giudicatrice, date le regole e le leggi, sussume il particolare empirico. I secondi aspirano ad una finalità ultima. I giudizi riflettenti sentimentali vengono dopo i primi: ed essi, proprio perché sentimentali, cercano l’universale da trovare come spinti da un anelito insopprimibile.

I sentimenti vogliono la totalità, l’intiero, l’eternità, sebbene siano fini impossibili da attuare. Il classico esempio è quello della cascata d’acqua vista da un ingegnere che giudica coi giudizi della scienza e da un poeta che giudica col sentimento:  il primo descrive il fenomeno con la fisica e la matematica, il secondo si esprime col sentimento della bellezza.

Kant prende in esame principalmente codesto sentimento: un sentimento che si manifesta soggettivamente negli uomini quando si avverte intensamente un piacere estetico. Le caratteristiche di tale piacere sono appunto quelle del perdurare e del voler condividerlo universalmente. Esso non ha nulla a che vedere col piacevole, che è individuale, transeunte, interessato e fortemente condizionato dai singoli gusti («de gustibus non est disputandum»): del resto anche gli animali provano il senso del piacevole.

 

L’importanza del bello

Il piacere estetico, duraturo e coerente, invece, richiede e genera la riflessione del Giudizio. Esso viene espresso quindi con giudizi riflettenti estetici puri, che Kant chiama giudizi del gusto, capaci di giudicare ciò che è bello. Essi sono a priori, un a priori finalisticamente da trovare, e tendono perciò alla trascendenza che, pur irraggiungibile, rimane, come si scriveva poc’anzi, l’anelito più struggente insito nell’animo umano, che i Romantici chiameranno “Sehsucht“.

Il bello, diceva Platone, è l’unica Idea trascendente visibile in questo mondo. La riflessione (“Reflexion”) sentimentale, afferma Kant, è quindi la capacità di congiungere e comparare i dati della immaginazione con la propria facoltà di conoscenza intellettuale, per cui ad ogni categoria (concetti puri e universali) corrisponde un giudizio riflettente estetico puro, altrettanto universale, seppur un soggettivo. Sicchè alla categoria della qualità corrisponde il giudizio del bello (o del gusto) senza interesse, a quella della quantità corrisponde il bello senza un concetto determinante (quello magari dettato da un critico d’arte), a quella della relazione il bello senza scopo, e, infine, a quella della modalità, il bello come una necessità che deve essere condivisa da tutti.

Tutte queste definizioni di bello hanno in sé un legame strettissimo: il bello scaturisce spontaneamente dal nostro sentimento di piacere estetico e vuole sempre essere compartecipe con tutti, poiché esso aspira a ciò che vi è più in alto nella nostra spiritualità, come finalità incondizionata. Kant ribadisce che è il soggetto umano, inteso come soggetto universale, a creare e sentire sia il piacere del bello, che coglie l’armonia, sia il piacere del sublime (l’altro giudizio sentimentale puro), che è dato dal contrasto fra misura-dismisura e potenza-impotenza.

Il bello di natura, invece, può essere compreso come tale solo da un soggetto che lo senta e lo pensi. La rosa può essere bellissima, ma non sa di esserlo. In sintesi, solo dalla relazione ordinata ed armonica o contrastante fra pensiero e sentimento del piacere estetico scaturiscono il bello e il sublime, e questo spiega il valore ontologico dell’opera kantiana.

 

La scomparsa del bello: perché?

Torniamo ora al titolo del nostro breve saggio: perché la bellezza artistica tende a scomparire nella nostra epoca contemporanea? È, questa, come si evince, una domanda estremamente ampia che può, comunque, essere spiegata sinteticamente e in modo semplice. A partire dal Cinquecento è in atto un sovvertimento generale della specie che chiamiamo uomo.

Abbiamo osservato dapprima fenomeni come l’eclissi del sacro (legato ai sentimenti della trascendenza religiosa) a causa della riforma luterana e calvinista; poi la vittoria della scienza sulla metafisica e teologia; infine, col trionfo del capitalismo industriale, abbiamo assistito, in parallelo, all’estendersi del sapere tecnico e del suo impianto livellatore (il “Gestell” heideggeriano). L’incanto, la poesia, l’idilliaco, la trascendenza, il senso del mistero sono quasi del tutto scomparsi: e con essi il bello, che è un piacere della semplice e spontanea riflessione.

Gli ingegneri, invocati da Comte, ed i banchieri mondialisti, sono i Demiurghi del nostro tempo. Con la loro affermazione epocale, tuttavia, osserviamo anche la regressione ed il degrado dell’essere umano, poiché assieme al declino del bello si nota sempre di più lo smarrirsi del pensiero pensante. La riflessione, come si scriveva all’inizio, è l’atto supremo e più potente della nostra spiritualità.

 

Le fattezze della scomparsa del bello

Ebbene, la velocità dei movimenti umani nelle megalopoli, i ritmi sempre più celeri imposti ovunque dal lavoro parcellizzato e dalla Amministrazione politico-sociale sempre più totalitaria, impediscono la capacità di riflettere, che necessita di contemplazione e di lenta calma. Perciò l’arte di oggi, in  tutte le sue discipline, si è completamente scissa dal bello, e questa è la palese rivelazione del deliquio contemporaneo. Gli artisti sono ormai capaci solo di rappresentare il vuoto, dovuto all’assenza della riflessione.

Inoltre l’ondata migratoria di milioni di persone provenienti da Paesi senza storia e senza arte (se comparate a quelle europee) rischiano di segnare la fine definitiva della nostra civiltà, se non ci si opporrà con tutte le forze. Kant scriveva che di fronte ai bei palazzi di Parigi, «un Sachem irochese» avrebbe preferito di gran lunga «le bettole» [6].

La cura del bello richiede una lunga educazione sentimentale, che si forma e si consolida nei secoli con fatica, «all’interno di una vita associata da leggi che fa di un popolo una comunità durevole» [7]. Ciò significa, come pensavano i grandi filosofi del passato, già citati, che senza il bello non ci possono essere il bene, il vero e il giusto. L’esatto contrario dell’epoca in cui viviamo, un’epoca in cui l’Essere ci sta abbandonando sempre più.

Note:

1) Usiamo questa parola con la lettera iniziale in maiuscolo, proprio per indicarla come capacità riflettente.

2) G. W. F. Hegel, “Scienza della logica”, Gius. Laterza & Figli, Roma-Bari 1988, traduzione di A. Moni, Vol. II, pag. 449.

3) Idem. Cfr. pag. 437-545 dello stesso volume.

4) Cfr. F. Tovo, “Riflessioni sul principio di causa”, pubblicato dalla rivista “Comedonchisciotte” il 14-01-2018.

5) L’immaginazione produttiva si configura come la facoltà di produrre a priori determinazioni formali dello spazio e del tempo, secondo le regole dell’intelletto (V. Mathieu). Indipendentemente, aggiungiamo, dalla presenza fattuale e fenomenica dell’oggetto a cui si riferiscono.

6) I. Kant, “Critica del Giudizio”, Gius. Laterza & Figli, Roma-Bari 1989, traduzione di A. Gargiulo, pag. 45.

7) Idem, pag. 22.

(Flores Tovo)

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