Harakiri e seppuku: il suicidio tradizionale giapponese

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Harakiri seppuku samurai

Redatto da Oltre la Linea.

Tra le immagini più iconiche della cultura giapponese c’è sicuramente la pratica dell’harakiri. Film, libri e personaggi illustri hanno mostrato al mondo questa antica usanza.

Harakiri suicidio samurai

Harakiri: cos’è e come funzionale il suicidio rituale

Con harakiri (o col più formale seppuku) si indica la pratica, praticata per secoli in Giappone, del suicidio rituale samurai.

Il termine significa letteralmente “taglio ventre”. Proprio il ventre infatti era ritenuta la sede dell’anima. Il rituale infatti era fortemente codificato.

Si trattava di un taglio eseguito appunto al ventre, da sinistra verso destra e poi verso l’alto. Anche la posizione era fondamentale: il samurai sedeva in ginocchio in posizione “seiza” (si mette a terra prima il ginocchio sinistro, poi il destro e infine i glutei che poggiano sui talloni con le punte dei piedi rivolte all’indietro). Ciò impediva che, con la perdita delle forze, il corpo cadesse all’indietro, facendolo invece in avanti, in modo più onorevole.

A seconda delle circostanze la lama per eseguire il gesto era di tipo diverso. Se l’harakiri avveniva in situazioni “civili”, al di fuori del campo di battaglia, si utilizzava il “tanto”, un coltello con una lama lunga intorno ai 30 cm. Per i seppuku praticati in battaglia era invece preferita la wakizashi: una spada che i samurai usavano portare come seconda arma, dopo la katana, dalla lunghezza compresa tra i 30 e i 60 cm. Una spada dal forte contenuto simbolico, che veniva chiamata “guardiana dell’onore”: mentre infatti ci si poteva separare dalla katana (ad esempio in caso di visite ufficiali), ciò non poteva avvenire per la wakizashi, che il samurai doveva sempre portare con sé.

Seppuku harakiri

Fondamentale è anche la figura del kaishakunin. Si trattava di solito di una persona fidata e molto esperta nell’uso della spada. Il suo compito era infatti quello di decapitare il samurai prima che il dolore provocato dallo squarcio del ventre ne deformasse il volto. Era una pratica decisamente delicata e complessa: non bastava infatti che il kaishakunin decapitasse il samurai, ma bisognava avere cura di non recidere del tutto la testa. Farla cadere infatti sarebbe stato segno di disonore e disgrazia. Il colpo doveva essere secco e preciso al punto da causare la morte ma evitando la menomazione. Dopo aver svolto il suo compito, il kaishakunin si genufletteva davanti al cadavere per qualche secondo in segno di rispetto.

Questo ruolo talvolta, dopo una battaglia, era riservato non ad un amico, ma allo stesso nemico del guerriero che lo onorava per il suo coraggio concedendogli la morte onorevole.

Harakiri: il significato

La pratica, complessa e molto ritualizzata, dell’harakiri era fonte di immenso significato. Essa infatti rappresentava una morte onorevole, una forma di espiazione per qualcosa che si era commesso. Il taglio del ventre, come detto ritenuta la sede dell’anima, aveva la funzione di mostrare un animo puro, privo di colpe.

L’usanza poteva essere imposta o volontaria. La ragione che spingeva a tale atto era di solito la sconfitta in battaglia, ma poteva essere qualsiasi colpa o atto disonorevole. Il suicidio rituale veniva visto, in questi casi, come un modo per recuperare l’onore perduto.

Una pratica che segue lo stesso rituale (conosciuta col nome di oibara o tsuifuku) avveniva alla morte di un maestro o del proprio signore e testimoniava l’immensa venerazione e il rispetto che si possedevano nei confronti di quest’ultimo.

Jigai: il seppuku al femminile

L’harakiri rappresentava una pratica riservata ai guerrieri, e dunque appannaggio della sola figura maschile. Vi era però una forma di suicidio rituale previsto anche per le donne: lo Jingai.

Per evitare infatti di essere disonorate perché prese ostaggio del nemico, o cadute vittime di violenze e stupri, le donne potevano compiere suicidio in una versione meno impegnativa del seppuku.

L’atto consisteva infatti nel taglio della vena carotide e dell’arteria giugulare con un tanto, lo stesso coltello usato dai samurai in caso di harakiri lontano dai campi di battaglia.

Non di rado era compito delle madri istruire i bambini su come compiere il gesto, per avere la possibilità in caso di estrema ratio, per evitare di cadere sotto le mani del nemico, di poter compere dei veri e proprio suicidi di gruppo.

L’harakiri nella cultura giapponese

Il primo seppuku di cui si abbia traccia è quello di Minamoto no Yorimasa, un samurai del tardo periodo Heian che combatté nella ribellione di Hōgen del 1156.

Molti sono stati nel corso della storia i seppuku famosi. Quello che ha influenzato su tutti la cultura di massa è forse quello dei 47 ronin (46 compirono harakiri).

Asano Naganori, signore di un gruppo di samurai, si recò dallo shogun per un ricevimento. Il dono portato da quest’ultimo non venne però apprezzato da un funzionario, Kira Yoshinaga, che iniziò a insultarlo e deriderlo in pubblico. Dopo una lite Asano ferì Kira. Il gesto, messo in atto nel palazzo dello shogun fu ritenuto una grave mancanza di rispetto. Kira fu perdonato, mentre ad Asano fu ordinato il seppuku.

Suicidio samurai asano

I samurai di quest’ultimo allora, divenuti ronin (samurai decaduti) in seguito alla perdita del loro signore, si divisero. Ma 47 di questi meditarono per lungo tempo una vendetta e ci riuscirono dopo anni in cui finsero di condurre una vita normale a vendicare il loro signore.

Di uno dei 47 non si ebbe traccia, probabilmente morto durante l’attacco a Kira. Ai restanti 46, con cui si schierò una buona parte dell’”opinione pubblica” di allora, fu concesso, per la violazione del divieto di vendetta imposto dallo shogun, di togliersi la vita tramite, appunto, l’harakiri.

Altro caso emblematico – e più recente – è quello dello scrittore Yukio Mishima.

Mishima harakiri

Fervente nazionalista si tolse la vita, il 25 novembre 1970, all’età di 45 anni come gesto di ribellione contro la società moderna e un Giappone occidentalizzato, che aveva perso la sua anima e il suo vero volto.

«Dobbiamo morire per restituire al Giappone il suo vero volto! È bene avere così cara la vita da lasciare morire lo spirito? Che esercito è mai questo che non ha valori più nobili della vita? Ora testimonieremo l’esistenza di un valore superiore all’attaccamento alla vita. Questo valore non è la libertà! Non è la democrazia! È il Giappone! È il Giappone, il Paese della storia e delle tradizioni che amiamo.»

(Yukio Mishima, discorso prima del seppuku)

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Nonostante la pratica sia stata resa illegale nel 1837, è vista dunque ancora oggi, nella cultura giapponese, come gesto di estremo coraggio, un atto che riporta alla mente una società lontana e affascinante.

Il termine nella cultura italiana

Nella cultura italiana il termine harakiri è sempre più diffuso, soprattutto in ambito giornalistico. Con la parola “harakiri” ci si riferisce spesso e volentieri col significato di “danno auto-prodotto“. Ovvero una disgrazia causata a sé stesso dal diretto interessato.

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